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Lo stemma della
famiglia Alfieri
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di Carla Forno (Direttore Fondazione “Centro di Studi Alfieriani”)
Il primo riferimento ad Asti compare all’inizio del primo capitolo della prima “epoca” della Vita, l’autobiografia scritta da Alfieri, là dove si legge “Nella città d’Asti in Piemonte, il dì 17 di gennaio dell’anno 1749, io nacqui di nobili, agiati, ed onesti parenti”, con evidente errore nell’indicazione della data, essendo in realtà egli nato il giorno 16 gennaio.
Mentre troviamo nell’autobiografia pagine appassionanti dedicate alla descrizione delle diverse città incontrate nei suoi viaggi in Italia e in quelli dal Portogallo alla Francia, dall’Inghilterra ai paesi del nord, sono rari i riferimenti alla città in cui il poeta nacque, per lo più confinati in quella dimensione dell’infanzia, tuttavia così importante per la scoperta, in se stesso, dei “primi sintomi di un carattere appassionato” (Vita, I, III).
Alla città sono legati altri ricordi: “Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei barbassori di corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand’impressione” (ivi, I, IV). E poco oltre: “Era venuto in vacanza in Asti il mio fratello maggiore, il marchese di Cacherano, che da alcuni anni si stava educando in Torino nel collegio de’ Gesuiti. Egli era in età di circa anni quattordici al più, ed io di otto” (ivi, I, V). Il riferimento alla città torna nell’accenno alla morte del fratello: “Circa un anno dopo, quel mio fratello maggiore, tornatosene in quel frattempo in collegio a Torino, infermò gravemente d’un mal di petto, che degenerato in etisia, lo menò alla tomba in alcuni mesi. Lo cavarono di collegio, lo fecero tornare in Asti nella casa materna, e mi portarono in villa perché non lo vedessi; ed infatti in quell’estate morì in Asti, senza ch’io lo rivedessi più” (ibid.). L’ultimo riferimento di queste pagine precede l’allontanamento dalla città e la partenza per l’Accademia di Torino, su suggerimento dello “zio paterno, il cavalier Pellegrino Alfieri”, il quale “passando per Asti mi vide” (ibid.).
Non solo Alfieri lega alla città i ricordi più vividi delle emozioni e della scoperta dei sentimenti dell’infanzia, o delle passioni (come quella del viaggio), ma anche la sua avversione per i francesi è ricollegata a un’esperienza astigiana, come ammette in una pagina dedicata al 1763: “essendo io ancora in Asti nella casa paterna, prima che mia madre passasse alle terze nozze, passò di quella città la duchessa di Parma, francese di nascita, la quale o andava o veniva di Parigi”. Si sommava alle impressioni negative riportate in quell’occasione la consapevolezza “che i Francesi erano stati padroni della città d’Asti più volte; e che in ultimo vi erano poi stati fatti prigionieri in numero di sei, o sette mila e più” (ivi, II, VI).
Asti diventa per Alfieri la città dei ritorni, come annota in una pagina riferita al 1765: “Nel mio andare a Genova ebbi un sommo piacere di rivedere la madre e la città mia, di dove mancava già da sette anni, che in quell’età paiono secoli”. Tuttavia, diventato nel 1766 “porta-insegna nel Reggimento Provinciale d’Asti” (“nel settembre mi presentai alla prima rassegna del mio reggimento in Asti”), insofferente della disciplina militare, che “non poteva esser l’anima mai d’un futuro poeta tragico”, con “un raggiretto” ottenne una licenza per poter viaggiare almeno un anno (ivi, X). I suoi ritorni segnano indubbiamente momenti importanti, benché brevi, e se ne fa cenno nella Vita. Così, nelle pagine conclusive riferite al lungo viaggio attraverso Olanda, Francia, Spagna, Portogallo: “Ed in Antibo subito imbarcatomi per Genova, dove solo per riposarmi soggiornai tre giorni, di lì mi restituiva in patria due altri giorni trattenendomi presso mia madre in Asti; e quindi, dopo tre anni di assenza, in Torino, dove giunsi il dì quinto di maggio dell’anno 1772” (ivi, III, XII).
Una svolta decisiva si ha nel 1778, l’anno della donazione di tutti i suoi beni alla sorella Giulia. Alfieri ricorda: “Esisteva in quel tempo una legge in Piemonte, che dice: ‘Sarà pur anche proibito a chicchessia di fare stampar libri o altri scritti fuori de’ nostri Stati, senza licenza de’ revisori,...’” Di qui, “nemicissimo com’io era d’ogni sotterfugio ed indugio, presi per disvassallarmi la più corta e la più piana via, di fare una interissima donazione in vita d’ogni mio stabile (...) al mio erede naturale, che era la mia sorella Giulia, (...) nella più solenne e irrevocabile maniera, riserbandomi una pensione annua di lire quattordici mila di Piemonte”. Con la consueta autoironia, Alfieri conclude: “per mia somma fortuna, il re d’allora, il quale certamente avea notizia del mio pensare (...) ebbe molto più piacere di darmi l’andare che non di tenermi. (...) ed ambedue fummo contentissimi: egli di perdermi, io di ritrovarmi” (ivi, IV, VI).
Per ovviare alla lontananza, in una lettera da Parigi del 24 dicembre 1791, chiede alla madre un suo ritratto (“Vorrei così avere il suo, che mi darebbe una gran consolazione”), ma dubita che vi siano in città pittori all’altezza dell’opera (“temo che in Asti non ci sarebbe pittore capace”). La madre morirà l’anno successivo, nel 1792.
In un sonetto dell’aprile 1783 rivendica la propria “astigianità”, “Sonet d’un astesan/an difeisa dl stil d’soe tragedie”, (trad. sonetto di un astigiano in difesa dello stile delle sue tragedie) e si pone con un interrogativo ironico alla coscienza dei contemporanei e dei posteri, “S’l’è ch’son d’fer, o j’ltalian d’potìa”.
In una lettera del 28 febbraio 1797 da Firenze, al letterato astigiano e uomo politico Francesco Morelli conte d’Aramengo (1761-1841), facendo riferimento alla propria biblioteca fiorentina e ai libri dispersi durante la rivoluzione francese, scrive: “Confesso che mi dispiacerebbe moltissimo che si dovessero disperdere un’altra volta o prima, o dopo della mia morte. La mia intenzione è adunque di farne un lascito alla nostra città in testimonio del mio affetto per quel dolce terren ch’io toccai pria. (...) Gradirei molto di lasciare alla mia città una qualche memoria di me, che non le riuscisse inutile del tutto”. In fondo alla risposta del Morelli del 29 marzo (“Meco mi rallegro (...) del naturale pensiero che Ella ha di regalare i suoi libri a questa Città, la quale è veramente mancante di libri classici di scelta letteratura”), Alfieri scrisse di suo pugno, con data “7 Aprile 1797”, il sonetto “Asti, antiqua Città, che a me già desti/La culla, e non darai (pare) la tomba;/Poich’è destin, che da te lunge io resti,/Abbiti almen la dottrinal mia fromba”. Alfieri allude ai propri libri, alle proprie carte: “Né in dono già, ma in filial tributo,/Spero, accetto terrai quest’util pegno/D’uom, che tuo cittadin s’è ognor tenuto.//Quindi, se in modo vuoi d’ambo noi degno/Contraccambiarne un dì ‘ mio cener muto,/Libri aggiungi ai miei libri; esca, all’ingegno”. In realtà, i libri della biblioteca fiorentina di Alfieri, ereditati dalla contessa D’Albany, sua erede universale, vennero da lei lasciati in eredità, alla sua morte, al pittore F. X. Fabre, nativo di Montpellier, e a Montpellier, dove, per lo più si trovano ancora (tranne il ricco fondo di manoscritti di Asti e di Firenze), furono trasferiti.
Il messaggio di questi versi, tuttavia, contiene per noi, suoi concittadini di oggi, un chiaro invito a dar “esca” all’ingegno, a comprendere la modernità della ribelle curiosità, della corrosiva ironia, della lucida intelligenza di questo astigiano in eterna fuga, in viaggio per le strade d’Europa.
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