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Vittorio Alfieri e la città di Torino







Mappa di Torino nel Settecento

mappa della città
di Torino
nel Settecento
di Carla Forno (Direttore Fondazione “Centro di Studi Alfieriani”)


I primi riferimenti a Torino nelle pagine della Vita, risalgono agli anni dell’infanzia e al ricordo di incontri con parenti di passaggio da Asti. Così, in riferimento al 1756, si legge: “Altra storietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei barbassori di corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand’impressione.” (I,IV).

Nelle pagine dedicate al 1757-’58, ricordando la scoperta di quel complesso sentimento dell’invidia, non “atroce”, ma capace di farlo
“ardentissimamente desiderare” di possedere ciò che altre persone avevano, Alfieri racconta della venuta ad Asti, in vacanza, del “fratello maggiore, il marchese di Cacherano, che da alcuni anni si stava educando in Torino nel collegio de’ Gesuiti. Egli era in età di circa anni quattordici al più, ed io di otto.”. Prosegue Alfieri: “Ma egli era tanto più grande di me; avea più libertà di me, più danari, più carezze dai genitori; avea già vedute più assai cose di me, abitando in Torino;” (I,V). L’anno successivo, il fratello morì, “tornatosene in quel frattempo in collegio a Torino”.

È un altro membro della famiglia, al quale era stata affidata la tutela dei suoi beni alla morte del padre, Antonio Amedeo, quello
“zio paterno, il cavalier Pellegrino Alfieri”, che, dopo essere passato da Asti, sempre nel ’58, di ritorno da un viaggio in Francia, Olanda e Inghilterra, “tornato in Torino, di lì a pochi mesi scrisse alla madre, che egli voleva assolutamente pormi nell’Accademia di Torino.”

Una vista dall'alto di Torino nel Settecento, tratta dal Theatrum Sabaudiae.
In primo piano l'Accademia di Torino frequentata da Alfieri (Equestris Academiae)

Torino nel Settecento (dal Theatrum Sabaudiae)

Come Alfieri annota, la sua partenza
“si trovò dunque coincidere con la morte del fratello”: nonostante “la brama di veder cose nuove” e “viaggiar per le poste”, “quando si venne all’atto di dover partire, io mi ebbi quasi a svenire”. La prima epoca della “puerizia” si chiude con la pagina dedicata al viaggio verso Torino, scortato dal servitore destinatogli, un certo Andrea, alessandrino: “Incalessato poi quasi per forza dal mio fattore, che era un vecchio destinato per accompagnarmi a Torino in casa dello zio dove doveva andare da prima”.

L’epoca seconda della “adolescenza” (
“Abbraccia otto anni d’ineducazione”) si apre con la prosecuzione del viaggio, “per le poste correndo a quanto più si poteva” (II,I). Alla scoperta della città di Torino è legato il ricordo dell’ebbrezza della corsa in calesse: “quel volar del calesse mi dava intanto un piacere, di cui non avea mai provato l’eguale”. E ancora: “Così dunque di posta in posta, con una continua palpitazione di cuore pel gran piacere di correre, e per la novità degli oggetti, arrivai finalmente a Torino verso l’una o le due dopo mezzo giorno.”

Si ha qui la prima descrizione della città:
“Era una giornata stupenda, e l’entrata di quella città per la Porta Nuova, e la piazza di San Carlo fino all’Annunziata presso cui abitava il mio zio, essendo tutto quel tratto veramente grandioso e lietissimo all’occhio, mi aveva rapito, ed era come fuor di me stesso.”. L’entusiasmo ebbe breve durata, perché lo zio anticipò l’ingresso in Accademia, dall’ottobre all’agosto (“mi v’ingabbiò fin dal dì primo d’agosto dell’anno 1758.”). Segue la descrizione della vita in Accademia, “trapiantato in mezzo a persone sconosciute”, in quel “sontuosissimo edificio”, poco lontano dall’Università. L’Accademia di Torino è, nei ricordi, il luogo dei “primi studi, pedanteschi, e mal fatti”, “asino, fra asini, e sotto un asino” (II,II).

Nel frattempo, trasferitosi a Cuneo lo zio paterno, il cavalier Pellegrino Alfieri, non rimanevano in Torino che i parenti della madre,
“la casa Tornone, ed un cugino di mio padre, mio semi-zio, chiamato il conte Benedetto Alfieri”, primo architetto del re (II,III). Alfieri ricorda non solo come Benedetto alloggiasse “contiguamente a quello stesso Regio Teatro da lui con tanta eleganza e maestria ideato, e fatto eseguire”, ma anche come, alla sua morte, avesse lasciato “grandiosi disegni”, ritirati dal re, con progetti di “abbellimenti da farsi in Torino”.

Sempre in riferimento a Benedetto, ricordando il suo uso del toscano, Alfieri, nelle pagine di questi primi ricordi torinesi, anticipando riflessioni successive, maturate durante i viaggi in Toscana, accenna alla questione piemontese della lingua, dal momento che il parlare italiano era
“un vero contrabbando in Torino, città anfibia”, i cui abitanti “smozzicavano un barbaro gergo”.

Nel ’62 anche Giulia (
“la mia sorella carnale, Giulia, che era la sola di padre”) si trasferì a Torino, in seguito alla decisione dello zio (“come nostro tutore”) “di porla nel monastero di Santa Croce, cavandola da quello di Sant’Anastasio in Asti”, a seguito di un “qualche suo amoruccio”. Ai ricordi dei “non-studi” torinesi presso l’Accademia si mescolano quelli dei pomeriggi delle domeniche e dei giovedì passati con Giulia: “E assai spesso io passava tutta la mia visita di un’ora e più, a pianger con essa alla grata; e quel piangere, parea che mi giovasse moltissimo; sicché io tornava sempre a casa più sollevato, benché non lieto.” (II,V).

Torino è, per Alfieri, la città delle prime grandi emozioni. Fondamentale quella della scoperta, nelle vacanze del ’62, del Teatro Carignano,
“dove si davano le opere buffe”, vera conquista, per un allievo dell’Accademia, dovuta allo “zio architetto”, il “pietoso zio”, dal momento che “nessun altro teatro ci era permesso fuorché quello del re”. L’ascolto di un’opera buffa, “il Mercato di Malmantile, cantata dai migliori buffi d’Italia” (su libretto di Goldoni, con musica di Domenico Fischietti), coincise con la scoperta dell’emozione per la musica, “potente e indomabile agitatore dell’animo”: “Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per così dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni più interna fibra, a tal segno che per più settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole” (II,V).

Altri ricordi di vita torinese risalgono agli anni dell’infanzia in Accademia, dall’ingresso alla “Cavallerizza” nel ‘63, alle
“gran cavalcate su certi cavallucci d’affitto, cose pazze da fiaccarcisi il collo migliaia di volte non che una”, lungo la strada “erta a picco” “dall’Eremo di Camaldoli fin a Torino”, “guadando spessissimo la Dora, e principalmente nel luogo dove ella mette nel Po”, “con grand’urli, e scoppietti di fruste, e corni artefatti con la bocca” (II,VII).

Torino è la città dell’adolescenza,
“età funesta, per la profondità delle ricevute impressioni” (II,VII), ma anche quella della “prima gioventù”, “età bollente, oziosissima, ineducata, e sfrenata”: quella del giovane conte proprietario di “una elegante carrozza, cosa veramente inutilissima e ridicola per un ragazzaccio di sedici anni in una città così microscopica come Torino”, nel ’64 (II,IX). Quella, nel ’65, del “primo amoruccio” (“prima mia fiamma, che non ebbe mai conclusione nessuna”), atteso passare “nelle passeggiate pubbliche del Valentino e Cittadella” (II,X).

L’Accademia fu abbandonata nel maggio del ’66,
“dopo esservi stato quasi ott’anni”. Ancora in una lettera in francese a Giacinto Cumiana (I,8) del ’71 Alfieri parla dell’“apartement”, cioè del “piccolo ma grazioso quartiere”, appigionato nella stessa casa della sorella Giulia all’uscita dall’Accademia, appunto nel ’66. Nel settembre dello stesso anno Alfieri si presentò alla prima rassegna del suo reggimento in Asti, con il ruolo di “porta-insegna nel Reggimento Provinciale d’Asti”. Il 4 ottobre 1766, con “indicibile trasporto”, partì per il primo viaggio: Milano, Firenze, Roma.

Tornato a Cumiana, nella villa della sorella,
“senza passar per Torino”, “dopo circa sei settimane di villeggiatura”, nel ’68 Alfieri fece ritorno a Torino, dopo “due anni e qualche giorni”, spesi viaggiando per l’Europa, conducendo “vita variata, oziosa, e strapazzatissima” (III,VII). Nel maggio del ’69 ripartì “alla volta di Vienna”, città che gli parve avere “gran parte delle picciolezze di Torino, senza averne il bello della località” (III,VIII). Solo al termine del “secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia” (III,VIII), il suo “proseguimento” attraverso Russia, Prussia, Olanda e Inghilterra (III,IX) e la ripresa in Olanda, Spagna, Portogallo (III,XII), “dopo tre anni di assenza, in Torino”, egli vi fece ritorno “il dì quinto di maggio dell’anno 1772”, “assai mal ridotto”, al punto che “ebbi che fare quasi tutta l’estate per rimettermi in salute” (III,XII).

Non è più l’Alfieri bambino o adolescente, ma è un giovane al quale si erano
“assai allargate le idee, e rettificato non poco il pensare” quello che, dopo cinque anni di viaggi rimpatriava (il termine è alfieriano: “poco dopo essere rimpatriato…”, III,XIII) a Torino. Ricorda: “In fine di quell’anno del mio rimpatriamento, provvistomi in Torino una magnifica casa posta su la piazza bellissima di San Carlo, e ammobigliatala con lusso e gusto e singolarità, mi posi a far vita di gaudente con gli amici,”. Parla di questa casa da appigionare, in una lettera a Giacinto di Cumiana, da Madrid, del novembre ’71: “et étant depuis à Cumiane j’aurai tout le loisir de chercher une maison a mon gré, avant l’hiver, et de la meubler, car vous scavez, que je n’ai pas une chaise.” (I,8). Infatti, alla fine del ’72, il poeta andò ad abitare nel palazzo di proprietà dei conti di Villa, all’angolo sud-ovest di piazza San Carlo. La “casa di Villa” viene citata in una lettera alla sorella Giulia del “3 marzo (1778)” (I,15): “Quanto alla casa, sarà in arbitrio vostro, o di disfare il contratto con casa la Villa se vogliono, …”.

Nasce, nel ’73, quella
“società permanente”, dedita ad “adunanze periodiche settimanali” in casa del poeta (“perché era e più bella e più spaziosa di quelle dei compagni”), intorno a “un ceppo assai ben capace, dalla di cui spaccatura superiore vi si introducevano scritti d’ogni specie, da leggersi poi dal presidente nostro elettivo ebdomadario”. Fra le “cose facete miste di filosofia e d’impertinenza”, scritte in francese, “con un qualche sale, e molta verità”, nacque l’Esquisse du jugement universel, scritto “che fingeva la scena di un Giudizio Universale”, occasione per ritrarre “molti sì uomini che donne della nostra città”, assecondando la propria inclinazione alla satira.

La Torino di questo giovane Alfieri (
“la libertà totale, le donne, i miei ventiquattro anni, e i cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e più…”) è, negli anni dal ’73 al ’75, la Torino di una “vita giovenile oziosissima”, sfondo dell’ennesimo “tristo amore” (la “terza ebrezza d’amore (…) veramente sconcia”), foriero di “infinite angosce, vergogne, e dolori”. Rari gli allontanamenti, come quello del ’74, presto concluso (“me ne ritornai a Torino diciotto giorni dopo esserne partito per fare il viaggio d’un anno”, III,XIV). Tuttavia, è proprio in questa situazione che, essendo “avvezzo” a vedere presso “quella signora” “alcuni bellissimi arazzi, che rappresentavano vari fatti di Cleopatra e d’Antonio” (III,XIV), Alfieri elegge questi personaggi a protagonisti della prima tragedia, poi ripudiata, quell’Antonio e Cleopatra iniziata nel ’74 e messa in scena, al Teatro Carignano, il 16 giugno del ’75, ottenendo “ingiusti e non meritati applausi” dalla “platea di Torino” (IV,I).

È a Torino, sempre nel ’75, che Alfieri scrive il primo sonetto, inviato in lettura
“al gentile e dotto padre Paciaudi”, letterato e bibliotecario del duca di Parma (III,XV).

È a Torino, per l’
“odiosamata signora”, che Alfieri sacrifica, come scrive, la “lunga e ricca treccia de’ miei rossissimi capelli”, per indursi, “così tosone”, a non uscire di casa, ed è sempre a Torino, con lo stesso scopo, che egli ricorre allo strattagemma di farsi legare alla seggiola, non per amore dello studio, come ha banalizzato tanta letteratura “agiografica” sul poeta, ma, molto più semplicemente, per porre un freno alla passione, “per impedire in tal modo me stesso dal potere fuggir di casa, e ritornare al mio carcere” (III,XV).

Chiusa la relazione con la Priè, avviata la stesura delle tragedie, trasferitosi in Toscana, Alfieri fa ritorno a Torino, dopo una breve assenza, nell’ottobre dello stesso anno. È evidente, dalle pagine dell’autobiografia, come Torino venga a contrapporsi nettamente, in questi anni della
“virilità” (IV,II), proprio alla Toscana. Al “viaggio letterario” si contrappone, infatti, il soggiorno torinese, dovuto a “frivole ragioni”: “Tutti i miei cavalli lasciati in Torino mi vi aspettavano e richiamavano; passione che in me contrastò lungamente con le Muse, e non rimase poi perdente davvero, se non se più d’un anno dopo”. Nonostante l’applicazione allo studio e la frequentazione assidua di “coltissimi individui” come “l’incomparabile abate Tommaso di Caluso” e il “conte di San Raffaele” (Benvenuto Robbio conte di San Raffaele, fondatore della società “Sampaolina” che dal 1776 al ’91 si adunava nel palazzo del conte Gaetano Emanuele Bava di San Paolo), ha il sopravvento “la smania di divertirmi; il che mi riusciva assai più facile in Torino dove c’avea buona casa, aderenze d’ogni sorta, bestie a sufficienza, divagazioni ed amici più del bisogno.” (IV,III).

Di questi anni torinesi si legge nelle pagine del diario di Alfieri, i cosiddetti Giornali, stesi dal novembre del ’74 al febbraio del ’75 in francese e dall’aprile al giugno del ’77 in italiano. In data
“Samedi, le 19 de Février 1775” Alfieri annota le passeggiate a cavallo, lungo via Po: “Je passais toute la rue du Po au grandissime trot,…”. E poco oltre, accennando ancora a via Po, come meta per incontrarvi una donna che passeggiava abitualmente per quella via, scrive, con giovanile presunzione: “Je revins ensuitte par la rue du Po. Une faiblesse ridicule m’y fait passer très souvent; je scais qu’une femme qui promène ordinairement dans cette rue, me fait des agaceries, je ne m’en soucie point, mais je serais faché qu’elle ne m’en fist pas,…”. E ancora: “Insensiblement l’ennui me gagne, je m’en vais une autre fois dans la rue du Po, mais j’ai froid, il n’y a personne,…”. Sempre nel diario, sotto la stessa data, accenna al teatro (forse il Regio): “Je vais premièrement au théatre, pour voir si feu ma maitresse y est,…” e, in data “Mercoledì 23 Aprile (1777)”, all’università: “fui all’università per ozio, e curiosità ad udire una Laurea Teologica.”

Convinto, pertanto, di vivere in Torino
“ancor troppo divagato, e non abbastanza solo e con l’arte”, immerso nel “gergaccio piemontese” (IV,III), Alfieri parte per il “secondo viaggio letterario in Toscana” (IV,IV). Acadde a Firenze, nel ’77, “tale accidente” (l’incontro con il “degno amore”, la contessa D’Albany) che, in quella città, finalmente, lo “collocò e inchiodò per molti anni” (IV,V), inducendolo, per “disvassallarsi” e “spiemontesizzarsi”, lasciato in Torino il fidato servo Elia per badare al disbrigo delle questioni pratiche, alla donazione di tutti i beni alla sorella Giulia, sua erede naturale.

Torino, un'animata piazza Castello nel Settecento.
(In fondo alla piazza si può vedere Palazzo Reale, mentre sulla destra si intravede un pezzo del Castello.
Sulla sinistra si apre l'attuale via Garibaldi, e sulla destra via Po)

Piazza Castello nel Settecento (dal Theatrum Sabaudiae)

Con autoironia, Alfieri annota, nelle pagine dedicate al ’78:
“per mia somma fortuna, il re d’allora, - Vittorio Amedeo III - il quale certamente avea notizia del mio pensare (avendone io dati non pochi cenni) egli ebbe molto più piacere di darmi l’andare che non di tenermi. Onde egli consentì subito a quella mia spontanea spogliazione; ed ambedue fummo contentissimi: egli di perdermi, io di ritrovarmi.” (IV,VI).

Lasciati a Torino anche gli amati cavalli (
“Rinunziando ai beni, ho rinunziato pure alle superfluità; perciò rimando i miei cavalli a Torino,…”, scrive in una lettera al Paciaudi del 1 aprile (1778), I,17) e rimandatine là, da Firenze, altri quattro, al fine di venderli, Alfieri afferma la volontà di chiudere drasticamente con la Torino della sua giovinezza: “Ed io era in fatti risolutissimo all’espatriazione perpetua, a costo pur anche del mendicare” (IV,VI). In una lettera al Tana del maggio-giugno 1778 (I,22) si legge: “e non mi rivedrete a Torino se non coll’alloro, e attempato.”.

Rapidi gli accenni ai successivi ritorni. Si pensi a una lettera da Siena, alla sorella Giulia, dell’11 maggio 1783 (I,70):
“Quest’estate è ancor più probabile ch’io faccia da voi la scorsa che già avea progettata l’anno passato; ed ogni giorno può esser quello ch’io arrivi improvvisamente, o a Torino, o a Cumiana: dove sarete insomma.”. In un’altra, con la stessa data, a Luigia Alfieri di Sostegno (I,71), promette la lettura delle “Canzoni sull’America” (le prime quattro odi dell’America libera), scrivendo: “E chi sa ch’io stesso non glie le venga leggere o a Torino, quest’estate, o a San Martino, se anderò, come è possibilissimo, a veder la mia Madre,…”. E Nella Vita, proprio in riferimento al ritorno dell’83, dopo il lungo soggiorno romano, trovandosi dall’abate di Caluso, nel suo “bellissimo castello di Masino”: “trovandomi anche tanto vicino a Torino, mi vergognai di non vi dare una scorsa per abbracciar la sorella. V’andai dunque per una notte sola coll’amico, e l’indomani sera ritornammo a Masino.” . Infatti, “Erano già sei e più anni, ch’io non dimorava più in Torino; non mi vi parea essere né sicuro, né quieto, né libero; non ci voleva, né doveva, né potea rimanervi lungamente.” (IV,X).

Solo nell’84, al termine del rocambolesco viaggio da Londra, con l’intera
“cavalleria”: “Col capo ripieno traboccante di queste inezie cavalline, e molto scemo di ogni utile e lodevole pensamento, arrivai in Torino in fin di maggio, dove soggiornai circa tre settimane, dopo sette e più anni che vi avea smesso il domicilio.” (IV,XII). Si legge in una lettera alla sorella Giulia da Londra del 13 (gennaio) 1784 (I,85): “mi sarà veramente una consolazione di passar tre, o quattro settimane con voi. Ma siccome verrò, credo, con parecchi cavalli comprati qui, di quelli non ti voglio assolutamente dare il disturbo: onde vi scriverò alcuni giorni prima d’arrivare, affinchè vi compiacciate di farmi trovare una stalla il più vicina che si potrà a casa vostra. Credo che tra poche settimane ci vedremo.”.

A questo “breve soggiorno” torinese Alfieri dedica alcune pagine, per ricordarne
“piaceri” e “dispiaceri”, l’incontro con “gli amici della prima gioventù, ed i luoghi che primi si son conosciuti” o l’“amarissimo boccone (…) di dovermi indispensabilmente presentare al re - e, prima, dal suo ministro, il marchese d’Aigueblanche -, il quale per certo si teneva offeso da me, per averlo io tacitamente rinnegato coll’espatriazione perpetua.” (IV,XIII). Sventato il rischio di dover tornare in patria, dopo aver assistito a una recita pubblica della sua Virginia ed essersi scandalizzato dell’“incapacità” degli attori, Alfieri riparte, per trattenersi, appunto, tre giorni ad Asti, “presso l’ottima rispettabilissima mia madre. Ci separammo poi con gran lagrime, presagendo ambedue che verisilmente non ci saremmo più riveduti.”. Tuttavia, in una lettera di luglio (“Siena, 11 luglio 1784”, I,88), proprio scrivendo alla madre, Alfieri annunciava un possibile passaggio da Asti dell’Albany (la “Signora”): “mi dice che al Settembre ritornando in Italia passerà per Torino, e poi per Asti, o Magliano dove lei sarà, per vederla, e stare un giorno con lei:…”.

Nelle lettere degli anni immediatamente successivi, l’accenno a Torino è per lo più legato alla questione del servo Elia, dopo la rottura del rapporto (I,104; 107 ecc.), o, curiosamente, alle varie ricette della cioccolata, alle dosi ideali di vaniglia:
“Dalle dosi per la cioccolata ch’ella mi trascrive, non capisco come con sì poca vainiglia sia così buona; mentre a Torino se ne mette per il solito almeno due oncie per libbra, e non si sente troppo: e di questo ne son certo per averla vista fare co’ miei occhi.” (“A Mario Bianchi - Siena”; “(Colmar,) 9 aprile 1786.”, I,161).

Il volontario allontanamento dal Piemonte si traduce, comunque, nelle pagine della Vita, in un sentimento profondo di liberazione:
“Appena uscito io poi dagli Stati del re sardo, mi sentii come allargato il respiro: cotanto mi pesava tuttavia tacitamente sul collo anche l’avanzo stesso di quel mio giogo natio, ancorché infranto lo avessi.”

Stabilitosi definitivamente a Firenze, dopo la fuga da Parigi del ’92, Alfieri rifiutò ogni occasione di contatto con ambienti e realtà piemontesi, e torinesi in particolare. Nel 1801 rifiutò sdegnato la nomina di accademico per la classe di belle Lettere, offertagli dall’Accademia delle Scienze di Torino, da lui considerata istituzione asservita alla Francia. Frequentò, invece, a Firenze, alcuni nobili piemontesi esuli, accolti in ricevimenti settimanali, ogni sabato sera, dall’Albany, come Cesare D’Azeglio, padre di Massimo, e Prospero Balbo.

Al decreto consolare del 29 giugno 1802, infine, ingiungente a tutti i piemontesi residenti all’estero il rientro entro il 23 settembre e il giuramento di fedeltà alla Costituzione francese, Alfieri rispose sprezzantemente, inviando alla sorella Giulia certificati medici attestanti la sua impossibilità di viaggiare. Giulia giurò a nome suo, sancendo così il distacco definitivo.
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