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Un paese microcosmo di letteratura

Saggio introduttivo all’opera "I mè"
di Laurana Lajolo

La mia gente mi sta dentro come le piante, l'erba verde, le colline, il sole rosso al tramonto. In questa frase di Davide Lajolo si trova il senso del volume di racconti, che viene riproposto, dopo molti anni di assenza dal mercato editoriale. I mé, pubblicato per la prima volta nel 1977, è stato un libro fortunato e molto amato dai lettori di Lajolo.

Questi racconti sono una prova matura dello scrittore. Aveva già scritto la famosa storia di Cesare Pavese Il vizio assurdo (1960), poi Il voltagabbana (1963), dove aveva ricostruito la sua vicenda umana come storia della sua generazione tra fascismo e resistenza. Nel 1977 aveva vinto il Premio Viareggio per la letteratura con Veder l'erba dalla parte delle radici, libro autobiografico che ruota intorno all'infarto subito e sconfitto. E molti altri libri ancora di carattere politico e letterario, praticamente uno all'anno.

Ne I mé Lajolo racconta storie del suo paese. Vinchio, un piccolo centro arroccato sulla cresta di una collina del miglior vino barbera, tra Asti e Nizza Monferrato, è considerato dallo scrittore come un microcosmo, in cui sono riconoscibili tutti gli eventi simbolici dell'esistenza umana. I personaggi descritti esemplificano la vita e la morte, la fatica della terra e la tenue poesia dei fiori e dei profumi. Il piccolo paese del Monferrato diventa, così, il fulcro ispiratore della narrativa di Lajolo, che ripercorre i luoghi della sua infanzia, dalle prime indelebili esperienze di gioco e di vita a quelle esaltanti della guerra partigiana.

Lajolo era impastato della terra della vigna del padre sul bricco di S. Michele, conosceva sentieri dei boschi e delle valli, prevedeva i tempi di maturazione delle piante da frutto, interpretava i movimenti delle nuvole, parlava con gli alberi e gli uccelli e amava la sua gente, di cui si sentiva parte.

I racconti e i personaggi sono nati da antiche storie più volte ascoltate da bambino nelle stalle d'inverno, dalla memoria ritrovata tra amici, dai ricordi della moglie Rosetta, abile affabulatrice di storie familiari. Lajolo non parlava abitualmente il dialetto, ma era la sua lingua materna, anche se erano Rosetta e il fratello Luigi che gli facevano notare i significati più antichi e gli traducevano le sfumature idiomatiche di certe espressioni.

Lajolo non registrava né prendeva appunti, ascoltava, spesso divertito e incuriosito dalle vicende, e poi filtrava con la sua fantasia letterarie le storie, dando trama e parola a sentimenti ed emozioni, che i personaggi dei suoi racconti non avrebbero mai saputo esprimere.

Il titolo I mé è stato a suo tempo proposto da Mario Soldati, a cui Lajolo, in spirito di amicizia, si era rivolto perché facesse la prefazione. Soldati aveva preferito la formula della lettera (che qui è presentata come postfazione del libro). Parlando dei personaggi del libro li ha definiti I mé di Lajolo, perché essi non sono altro che lo stesso autore che si riconosce in loro e che porta dentro di sé un po' della loro follia, cioè del loro modo originale di stare al mondo e di vivere il proprio destino. E d'altra parte non erano un po' folli anche Pavese e Fenoglio?

Vinchio è il luogo dell'infanzia e della memoria, che viene trasformato in luogo letterario.
"Vinchio è il mio nido, vi sono nato nella stagione del grano biondo. Quando ritorno qui sono felice e mi libero di tutto. Questa è la mia terra, è come una donna che mi piace tanto, che sento mia e che nessuno può portarmi via."

A Vinchio Lajolo è rimasto sempre fedele, anche se ha trascorso la sua vita adulta tra Ancona, Torino, Milano e Roma e ha attraversato il mondo dall'Europa alla Cina. Ma non ha voluto mai sottrarsi al richiamo ancestrale del paese.
"Da tanti anni, li posso contare a decine, torno infallibilmente a consumare le ferie al paese. È un amore viscerale al luogo dell'infanzia, alle piante e all'erba, all'ultimo salnitro delle vecchie mura, alla polvere delle carrarecce, dove vivaddio non è ancora arrivato l'asfalto e il fango è fango e la polvere polvere."

Lajolo amava fare lunghe passeggiate sotto il sole cocente, quello che non spaventa il contadino abituato a lavorare anche con la calura, amava l'afa d'agosto, gli ricordava la fatica del padre e dei fratelli contadini. Rimaneva assorto a sentire il frinire delle cicale, che cantavano il grande caldo o a seguire con lo sguardo il volo danzante delle rondini. Lo accompagnavano i suoi cani. Li aveva eletti suoi amici prediletti, perché, diceva scherzando, lo capivano, senza svelare i segreti confidati, e gli davano sempre ragione. Nell'ultima parte della sua vita, era felice di accogliere nella sua mano calda la piccola mano della nipote. Rispettava il breve passo di Valentina e, tra le vigne, raccontava solo a lei storie fantastiche.

Non rinunciava mai alla passeggiata nella notte della luna piena d'agosto. Di notte era il frinire continuo e monotono dei grilli, che si richiamavano da una collina all'altra, ad accompagnare il suo passo cadenzato. Nella luna piena Lajolo riconosceva la faccia di Giuanin Gurbela, secondo la vecchia filastrocca imparata da bambino, mentre la luce bianca illuminava i profili delle vigne e circondava le chiome degli alberi. La luna era la sua grande amica.
"La luna stanotte è più tenera della più bella donna del mondo. Si è alzata da lontano, man mano si è avvicinata sopra la mia testa come a guardarmi, come a parlarmi. È tenera, soffusa di luce. Il cielo è limpido. Solo qualche cirro bianco di nubi soffici laggiù verso le montagne, che si alzano, ombre misteriose dalle mille teste."

Lo scrittore intuiva la magia della campagna, popolata di vigne e di uccelli, ma anche di presenze sottili ed evanescenti, che solo il suo spirito poetico gli consentiva di cogliere. Dialogava con le masche, con i gufi, con i salici, con i ramarri, con la luna e poi trascriveva quei sentimenti arcani in parole.

Impastava i racconti dei contastorie con le vicende realmente accadute agli abitanti di Vinchio, le leggende antiche con le dicerie delle donne all'uscita della messa, la memoria di famiglia con le tradizioni. E i contadini e le contadine diventavano personaggi letterari, rappresentanti di un mondo millenario.

Lajolo ha scritto con malinconia, trasfigurando liricamente quel mondo, si stava disintegrando in modo irrevocabile.

Anche il dialogo letterario con Pavese e Fenoglio si è intessuto del legame profondo con la terra di Langa, che è diventata una protagonista molto importante de Il vizio assurdo e del libro su Fenoglio, Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe. Lajolo fu amico di Pinolo Scaglione, impersonificandolo nel Nuto de La luna e i falò quale tramite di memoria e di racconto tra lo scrittore torinese e S. Stefano Belbo. Nel racconto de I mé, Il violino del bottaio, Lajolo ricorda uno dei tanti incontri con il Nuto, ma dedica il racconto al fratello di Pinolo, Candido dagli occhi celesti, uomo silenzioso e creativo che tra una bigoncia e l'altra costruiva violini, un poeta del legno.

La poesia, quella che si sprigiona dal paesaggio collinare e quella dei sentimenti, è un filone conduttore dei racconti de I mé. Basta leggere Catlina dei sonetti, la contadina che sapeva comporre brevi componimenti in dialetto per i matrimoni, i battesimi e le feste di leva, e in italiano gli elogi funebri. E il suo ultimo sonetto fu per la sua morte: Quando la morte arriva a tempo/ non fa paura è solo vento. È dalla voce scoppiettante di Catlina che Lajolo sentì per la prima volta leggere una poesia.

Per lo scrittore la poesia è vita, forza, amore per gli uomini, è futuro, ma anche memoria delle proprie radici. Il bricco dei cinquant'anni è un'autobiografia essenziale, ricostruita sul filo dei ricordi, a misurare quanto quei paesaggi collinari abbiano impregnato una vita, che pure si è svolta nel frenetico mondo del giornalismo e nell'agone politico di Milano e Roma. Anche i bilanci esistenziali si possono fare soltanto partendo dalle origini contadine, perché da lì sono nate la poesia e la morale che Lajolo si è portato dentro sempre, nel collegio salesiano, nelle guerre, nella redazione de "L'Unità", in Parlamento, affinate dalle tante letture, dall'incontro con poeti e scrittori, dalla voglia di scrivere.

Come controcanto letterario della propria vita, Lajolo racconta in La tentazione del cavallo, la storia di Diomete, che per ambizione di gloria era andato via dal paese e che ritorna per trovare il senso della sua esistenza. Il messaggio del contadino El Peru è molto chiaro: "Se taglio le radici a questa pianta, anche se le portassi acqua tutti i giorni, se la concimassi e la chiudessi in una campana di vetro quando infuria il vento, morirebbe egualmente. Solo le radici contano".

Il racconto è la misura narrativa più confacente allo stile di Lajolo e la cifra di lettura de I mé è lirica: i sentimenti dei personaggi hanno la prevalenza sulla razionalità e la natura, costruita dalla fatica umana, è protagonista assoluta. Il racconto, che apre la raccolta, è esemplare. Le masche raccontano la storia di Punti, un contadino reso disadattato dalla guerra, che ha ricostruito la sua vita in simbiosi con le piante e le streghe buone dei boschi. I sentimenti umani del protagonista diventano il palpito delle piante e l'alito degli uccelli. Tutto è straordinariamente fantastico, ma tutto è anche assolutamente reale e riconoscibile nei luoghi teatro della vicenda umana narrata.

C'è anche una dimensione antropologica: l'arcano del ciclo naturale, che scandisce i giorni di lavoro e i giorni di festa della comunità, che dà il senso della conservazione della memoria del tempo e degli uomini, che costruisce la concezione del mondo tra un primitivo spirito filosofico e la religiosità popolare.

Il racconto struggente de La madre muta è il doloroso omaggio dello scrittore alla madre malata, a cui era legatissimo, ma offre anche la sensazione dell'unità della famiglia contadina, come La nonna ascolta Pirandello, dove l'antico e il moderno si mescolano nella curiosità della vecchia contadina. Gelindo ritorna è la statuina di pastore, il simbolo stesso del Natale, che il sacrestano metteva per ultima nel presepe. Senza Gelindo il presepe non sarebbe stato completo e ogni anno il piccolo Davide aspettava trepidante il compiersi del rito.

Tutta la fatica del contadino è sotto il cielo, sempre a rischio del temporale nefando che distrugge tutto. Non a caso la grandine è chiamata dai contadini con una parola dura e disperata: tempesta. E nel racconto La grandine ci fa sanguinare, il nipote dello scrittore, uomo forte, alto come un olmo, non vuole rassegnarsi e impreca contro il destino, ma i chicchi bianchi, fitti e implacabili, battendo sui grappoli, fanno scorrere il vino nella vigna.

L'ingenuità e l'ignoranza contadina, nel racconto È più distante Genova o la luna?, viene messa a confronto con l'atteggiamento bonario di un astrofisico di fama. L'uomo dei boschi del Chon e il girasole collega con il suo nome esotico e i baffi spioventi Vinchio con Pechino e racconta che i semi volano per il mondo e creano mescolanze di uomini.

Lajolo, che ha vissuto la grande storia e ne è stato un protagonista, non poteva non riconoscere l'impatto degli avvenimenti nella piccola comunità, dove il tempo sembra essere scandito ciclicamente, senza cambiamenti evidenti. La prima guerra mondiale, con i contadini chiamati sul fronte del Carso, aveva rotto il silenzio millenario della storia e la guerra partigiana era entrata nelle case del paese. Il commento dello scrittore è sempre contro la guerra, con il rimpianto dei tanti giovani morti nei conflitti.

Molti racconti sono dedicati alla travolgente interferenza della guerra nella vita contadina. I contadini sul monumento narra del discorso ufficiale del reduce Centin, ripetuto ogni anno alla ricorrenza del 4 novembre. Pare di sentire la voce bassa all'inizio e poi sempre più alta come la cornetta quando chiamava all'assalto. L'ultima parola gli rimaneva sempre in gola, rauca.

Alla Resistenza sono dedicati i racconti Per vedere Laurana, l'incontro notturno con la figlia bambina che non riconosce quell'uomo con la barba di partigiano; Gli undici gelsi, gli alberi dei bachi da seta, che hanno protetto lo scrittore durante un'azione partigiana e che ora giacciono sradicati ai bordi del campo; Il traditore pallido, una spia salvata per pietà; Balza ancora tra i filari è la commossa rievocazione dell'uccisione di un giovane partigiano, freddato alla schiena da una pattuglia fascista.

Ma ci sono altre scansioni del Novecento, oltre le guerre, a disegnare il destino della piccola comunità contadina: l'emigrazione transoceanica degli anni venti e trenta, indotta dalla filossera che rinsecchisce le viti in Vigin parte per l'Australia, l'abbandono della campagna per il lavoro in fabbrica in Terra va a Milano, l'introduzione della TV come veicolo di conoscenza del mondo in La nonna ascolta Pirandello, i tentativi di speculazione edilizia anche nelle valli più verdi in Questa valle è il mio mare, il contadino, che finalmente ha avuto diritto alla pensione, ma non la ritira, perché ha sentito dire che il governo ha pochi soldi in Paulin senza pensione e senza uva.

Lajolo giudica gli effetti della trasformazione industriale e del consumismo sui costumi del paese e la scomparsa della tradizione in Alla vendemmia non si canta più. E scrive per non lasciarsi sopraffare dalla malinconia del suo mondo perduto e per fermare comunque il tempo su una pagina, per raccontare a sé prima di tutto e poi a giovani vite e vicende mai scritte eppure fondamentali per capire il senso delle vicende umane e del destino.

La cultura contadina ha lasciato tracce materiali, ma non parole, Lajolo, insieme a pochi altri scrittori, l'ha narrata e trasfigurata in una realtà simbolica, che ha acquistato un valore letterario che sconfigge il tempo cronologico.

Laurana Lajolo, Vinchio, 3 agosto 2000
















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