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Il folklore ne "I Sanssossì", di Luigi Gallareto
di Luigi Gallareto

Indice

Medicina popolare:
La medicona di Vigone
Rimedi naturali

Riti e feste contadine:
La Badia dei giovani
Canté J'euv tradizionale
L'irriverente carnevale di Monesiglio
MEDICINA POPOLARE

Un altro aspetto a cui Monti dà molto spazio nei suoi scritti è quello della medicina popolare, dei suoi riti e delle sue formule. Il che è quanto mai importante per gli studiosi del folclore, perché questo è il lato oscuro della cultura popolare, quello più temuto, meno raccontato, quasi mai trasmesso integralmente ai ricercatori.

Le formule, i rituali, le preghiere con cui si segnano i vermi o il sole, gli orzaioli o gli ascessi, le storte o il fuoco di Sant'Antonio, conservano intatto il loro valore e sono forse l'unico aspetto della sapienza rurale che ancora si teme di divulgare da parte di chi ne è a conoscenza. Il potere di curare le malattie - estrema eredità di un mondo in cui spesso erano le donne accusate di stregoneria a risolvere delicati problemi di salute - resta un potere ambiguo, non fisso, che si può perdere al momento stesso in cui lo si rivela, che non può essere trasmesso a caso, ma solo a particolari persone per così dire iniziate a questi misteri.

Proprio per questo mi pare quanto mai giustificato il ricorso alle fonti scritte: ad esempio dagli atti di un processo di stregoneria tenuto a Spigno Monferrato nel 1631 si evincono due formule in dialetto, recitate dalla presunta masca Margarita Bracha per cacciare i vermi e il cosiddetto "male della giazza", una forma virale che colpiva i buoi. Ma una simile formula era già riportata nel Polyptique de l'Abbaye de Saint Germain des Prés, all'inizio del IX secolo, e in testimonianze ancora più remote.


La medicona di Vigone

Tornando a Monti, le testimonianze più interessanti di medicina popolare si trovano in Val d'Armirolo ultimo amore, un breve testo che rievoca le villeggiature passate da Monti in un pesino montano presso Giaveno e pubblicato molti anni dopo dalla figlia Luisotta che aveva ordinato gli appunti. Tra i vari passi in cui si rievocano personaggi e situazioni di quel borgo idilliaco e tranquillo, ce n'è uno in particolare in cui si descrive la figura di una medicona di Vigone.

"Racconta Parin, che ha sentito per casa parlare della medicona di Vigone. "Ma è ancora al mondo quella là? Anni ne deve avere quanti Matusalemme e più. Era decrepita quando di qui ci vollero tornare per la mia donna buonanima Maijn, la prima. Le donne vollero allora, io no.
Io n'avevo ricordo di quella versiera, lontano, di quand'ero ancora bambino, e c'eravamo andati a piedi, sulla Moccalarda, giù per San Valeriano a Cumiana, poi vai e vai per quelle fratte - allora - di là, finché si giunse in riva a Po. C'eravamo andati io e lo zio padrino Basili, per la malattia di nostro padre, quella che doveva poi trarlo alla morte di fatto. S'andava e s'andava: zio padrino, masticava, malpersuaso, ce l'aveva con le donne credenzone.
E si fu là in quella stamberga: in cucina, ricordo, la donna stava pelando patate, povere patatine grosse quanto il dito appena. S'alzò, si scusò, andò di là. E zio padrino a borbottare "Se costei fosse quella che dicono, prima virtù sua sarebbe di prepararsi da pranzo qualcosa di più buono, direi". Era una donna di buona età allora, mora con due occhi che ti bucavano: si trasse nella camera di sopra zio padrino riluttante, ma non più tanto: cosa gli dicesse, cosa gli facesse, io non so. Per un po' dal basso sentii le due voci alte, dei passi, poi più nulla. Poi ridiscesero: lei avanti, lui dietro, più dimesso.
Si doveva tornar a casa, prender la gallina nera, aprirla viva, mettere il cuore sul cuore di nostro padre. Raccolta la moneta, riponendola, come viatico ci lasciò seria seria una raccomandazione: di non farci trovar in giro dopo la mezzanotte, a nessun costo.
Nel ritorno zio padrino celiava meno, non dava più di credulone alle donne e andava meno forte. Si fu alla Moccalarda di sera fatta: là era tappa obbligata: c'erano i parenti, i cognati, volevan bene a zio padrino bell'uomo festevole, volevan bene a me. Castagne bianche, latte, pomi cotti sotto la cenere.
Vino, anche; si fece tardi: io ricordavo l'ammonimento della fattucchiera, la rammentai a zio padrino. Aveva bevuto bene, era di nuovo lui. Non ci volle altro per rimetterlo in cammino. I parenti insistevano perché rimanesse là, avevano sentito anch'essi la storia. Niente, "che volete che mi capiti? al più di ruzzolare giù per questi rompicolli: ci ho il bastone, c'è la luna, diquà, dilà". Naturalmente non ci capitò nulla: di far latrare i cani alle borgate, null'altro.
Eran passati degli anni: zio padrino morto dalle coliche come un cavallo; morto mio padre come ho già detto; io cresciuto, moglie e figli. Sento, in quella distretta, riparlar della maga di Vigone: s'è fatto di tutto, s'è provato tutto: non restava che la medicona di là: tanti n'ha già guariti, patik e patena. la conosco la maga, e no ci vado, io: se volete, per non aver rimorsi poi, andateci voi. Adesso c'eran treni, autobus, si spendeva: pago il viaggio, pago il consulto, ma crederci voi, io, no.
Andarono. Lei qui stava molto male. Tornarono: che tre capi d'aglio si prendessero - aveva risposto - a bollire si mettessero, di notte, alle undici e mezza... Sarebbe ancora in vita, certo, sì. Alla mezzanotte in punto pur sul fuoco divampante l'acqua d'aglio avrebbe perso il bollore. Ed esse sarebbero scese dall'alto. Chi? Esse. E poi? Poi esse avrebbero provveduto.
Tutta la famiglia di sopra intorno a quel letto, dove lei cercava l'aria a labbra aperte, povera donna. E il sortilegio lo volevan fatto: e là sotto, in attesa, nessuno ci voleva stare, né solo né in compagnia.
io ci stessi che al sortilegio non prestavo fede. Del resto venisse chi volesse: falci e roncole appiccate a quelle pareti ce n'erano. L'acqua bolliva, l'aglio spandeva odore: l'undici e tre quarti. Di sopra venivan pianti e preghiere. La mezzanotte: l'acqua bolliva ch'era un piacere. Non comparve nessuno. E la mia donna morì al primo canto del gallo: la prima, Majin".


L'atteggiamento di Monti, come si vede, è quello di chi razionalmente rifiuta di dar credito a queste fandonie, di chi anzi deplora certe usanze come manifestazione di ignoranza. Ma intanto ci ha conservato una serie di informazioni utilissime e la descrizione di due rituali.

Rimedi naturali

Poche pagine dopo ecco un'altra testimonianza, questa volta riferita a una male alle gambe, passato solo con le cure tradizionali, in barba alle medicine prescritte da un dottore illuminista.

" (...) andai per bermi un quarto alla Corona Grossa, e una vecchia lì seduta che mi vide zoppicar andando e mi sentì soffiare come un gatto, mi chiese se mi fossi per caso fatto male alla gamba e, saputo cos'era, si segnò e disse nel suo parlar lassù del Forno che a suo figlio era successo lo stesso, al secondo, ma che quello era guarito e ora andava come una lepre e quel male non gli era tornato mai più. E la cura che aveva fatta era questa: un mattone sulla bracia che divenisse rosso rovente e poi con una pala estrarlo, innaffiarlo osto d'aceto - ma di vino buono - e farsene i suffumigi, ogni volta con un litro, cinque volte.
E poi - la vecchia nello stanzone odorante di vino continuava a sciorinar la sua ricetta - e poi raccogliere radici d'olmo, i filamenti che spremuti dal fuori una gomma come del mandorlo, faccio un esempio, quando si taglia, olio di ricino e acqua, due litri: far bollire fin che di due litri non ne resti che uno e con l'unguento spalmare e sfregare forte forte fin che ce n'è. provare.
E provai: sotto quella coperta a quella gamba pareva un inferno e se per caso aprendosi un po' la catalogna di quel vapore una zaffata scappava, accidenti, ti faceva pianger gli occhi e starnutire che pareva ti partissero a ogni colpo le cervella. Ma giovò; fin dalla sera un sollievo lo provai; al finir del litro ero a posto. Mai più da allora mi riprese il male. Il dottore, quando m'incontra, si rallegra e dice: "Vede? Le punture!" che lui è fisso d'avermele fatte, e io lascio dire: sa, ne hanno tanti qui, conciati così."


RITI E FESTE CONTADINE

Più facile, naturalmente, è raccogliere informazioni e testimonianze sulle feste contadine, sui rituali dei canti di questua che impegnavano i giovani per notti intere, sulle usanze folcloriche collegate alla mietitura e alla vendemmia o al culto di qualche Santo particolare.

La “Badia” dei giovani

Anche in questo caso, però, un'opera come I Sanssossi può rappresentare un'interessante fonte di notizie. Così sappiamo, per esempio, che a Monesiglio i giovani si riunivano in una congrega denominata Badia (ancor oggi vi sono Badie in funzione nella montagna cuneese) con a capo un laico, irriverente Abbà che altri non era se non uno dei fratelli Monti, molinari del paese.

E ci è stata anche tramandata la canzone politica dialettale di Brofferio, cantata in Cortemilia e dintorni in occasione della guerra d'indipendenza del 1848:


Intré pura intré an Ferara
Violé pura 'l drit d'le gent:
intreé pur, ma pieve gara
che 'l teren a l'è bujent

(Entrate pure, entrate in Ferrara - Violate pure il diritto delle genti:
entrate pure ma badate - che il terreno è bollente)


E ancora:

Son passà j'ani d'la scola
l'era nuvol, l'è vnù srén
l'è vnù vej l'euli 'd ninsola
e i grupion mangio pi nén
(Son passati gli anni della scuola - era nuvolo, si è fatto sereno
s'è invecchiaro l'olio di nocciola - e i ghiottoni non mangiano più).


Oppure si potrebbe citare la descrizione della festa dei coscritti di Cortemilia, la festa delle Coccarde, il "Bormion delle canzoni" come diceva papà, che nel 1848 fu un pandemonio come non mai, intrisa com'era di significati politici risorgimentali. Intanto Monti ci informa sulle canzoni dialettali e italiane più in voga in quell'epoca, da quelle di Brofferio - Il Baron d'Onea, Gasprin (Di' Gasprin - fa nen el fol - con sa frisa anturna al col) ad altre di recente invenzione (Già l'arme son pronte - a un cenno di Pio - mandato da Dio), a quelle di più remota tradizione (La lionota, Amsé Tone de le Langhe, La serva mangia 'l trifole - e 'l preive 'l pan gratà).

Canté j'euv tradizionale

Ancora più circostanziata con il testo della canzone quasi completo, è la descrizione del canto delle uova, attuato dai giovani di Monesiglio all'inizio dell'anno nuovo; un canto che è stato ripreso in vari paesi negli ultimi anni (ad es. a Bubbio, a Mongardino ecc.) ma che oggi in genere si svolge più avanti nel tempo, quando i rigori del freddo lasciano spazio a serate più miti.

La sequenza delle strofe, che ripetono un modulo fisso comprendente l'elogio dei padroni di casa, l'esaltazione della ricchezza, l'augurio per la futura prosperità, l'augurio per il matrimonio dei figli, la richiesta delle uova, il ringraziamento o l'insulto nel caso non si ottenesse nulla, è praticamente la stessa in tutta Europa e addirittura si ritrova tale e quale in un componimento dell'antica Grecia risalente al VI secolo e falsamente attribuito a Omero, chiamato Eiresione. In Piemonte sono state trascritte e registrate decine di varianti del canto, ma tuttavia il testo di Monti consente alcune integrazioni, anche per quanto riguarda la grafia e la pronuncia del dialetto.


"D'inverno cantar le ova, d'estate sfide al pallone o gare di "tela" e in mezzo, Carnevale: la vicenda era quella.
Dicembre, gennaio. Notte alta di neve, di gelo. Chi va per quei rompicolli, ridendo e vociando così? Un clarino fa sentire tre note. una gola si raschia. Cantano:
    Den der j'oeuve, den der j'oeuve
    der voster galinne
    ch'y n'an dicc i vocc avsìn
    ch'y ney der corbe pinne
C'è una casa lì nel buoi, dormente. Ma quel canto - pare - l'ha svegliata. Una finestra di fatto al piano sopra un pocolino s'è illuminata. Dall'aia la canzone continuando ripete garbata la richiesta: dall'aia lusinghe a volo, raccomandate alla nenia del violino, son lanciate su:
    'N te sta casa gentil casa
    à j'é na bela fia,
    a j'oma un giovenin con noi
    ch'ò s'la portreiva via.
La casa, gentil casa, si commuove, pare. La finestra sopra s'è spenta un momento, ma ricompare il lume all'impannata a terreno: s'apre una porta: una figura vi compare: una voce burlescamente irata si fa sentire: - Vi venga un po' di bene! Codeste son ore? Nessun parente più prossimo? - Irruzione in quella cucina. Vociare. - Chiudete: chiudete fuori il freddo - . Canti e musica ammorzati dietro la porta rinserrata:
    'N te sta casa gentil casa
    o y regna l'abondanza
    pi y na dèi pi y n'argale
    e pi la roba ay vanza
Sull'aia della casa di nuovo si riserva il trepestio il vocio dei ringraziamenti e dei saluti. Chiavistello. Lume di sotto. Lume di sopra. la finestra spenta. la casa, gentil casa, adesso vuol di nuovo dormire. Dorme. Non prima però che da lungi una voce calda abbia inviato - clarino violino in sordina - tra la neve l'ultimo saluto:
    Sonna sonna violin
    sonna 'n sla corda finna
    salutoma sor Giacolin
    e la bela Catlinna.

L’irriverente carnevale di Monesiglio

Dopo la scena del gioco della "tella" - un passatempo particolare diffuso nella zona tra Prunetto e Monesiglio e ancor oggi proposto in alcune occasioni - Monti passa a raccontare il celebre Carnevale di Monesiglio. Qui le funzioni del carnevale tradizionale ci sono tutte, dalla sequenza delle maschere contadine al mito dell'uomo che ritorna animale per poi ridivenire uomo, dal motto insultante e scherzoso nei confronti dell'ostessa alle ire della chiesa per l'avvenuto rovesciamento dei ruoli nella società.

In particolare colpisce la presenza della maschera del Torototela, di cui Monti ci lascia una splendida descrizione in un altro capitolo dell'opera:

"termine tutto nostrano che voleva dir poeta e canterino popolare e lo si attribuiva alla nota macchietta piemontese - cilindro solino scopettoni, code di rondine, e una zucca vuota a mo' di violino con su teso un cantino - che allietava feste e ricorrenze e nozze, improvvisando stornelli e strambotti allo stridulo miagolio di quella sua giga rusticana".

E colpisce anche l'atteggiamento di conflitto tra i giovani del carnevale e la chiesa, da sempre in prima linea per reprimere queste dimostrazioni di irrazionale sfrenatezza. Un anno, addirittura, si passò la misura, e si dovette ricorrere per l'assoluzione ai buoni uffici del conciliante don Spagarino, parroco di Prunetto.

"Fu l'anno che lo Scarpone, il ciabattino di piazza, s'intrise di pece e, sventrato quel bel piumino grande - la moglie che strilli! - ci s'avvoltolò nelle piume e trasformato in struzzo corse tre dì pel paese in subbuglio e fu raccattato alla fine fradicio di vino e ormai spennacchiato, che piangeva come un vitello, sconsolato di dover tornare uomo, una così bella vita fare l'uccello, glo, glo, glo, glo. E fu l'anno che il sartore, vestito da Torototela, invece di giga s'era messo al collo una cassetta, e nella cassetta un gatto vivo, chiuso dentro e con la coda fuori; egli intonava strambotti e al ritornello dava uno strappo alla coda: il gatto miagolava inferocito: e così c'era canto e musica d'accompagnamento.
Fu l'anno ancora che le esequie di Carnevale invece che alla contrada dei Colombi gli scapestrati le vollero eseguire in paese, e che la processione girò tre volte intorno alla canonica, empia e matta, cataletto col morto, Luis dei Monti mascherato da gesuita, tutta la brigata dietro cantando le litanie maccheroniche, mezzo il paese in coda facendo coro ubriacato, che la cosa passò davvero ogni convenienza e misura.
E quando avevano poi la coscienza caricata così, e c'era quindi bisogno per gli ariani di fare un bucato un poco in regola, per isgravarsi e ripulirsi avevano ancora sempre in quel di Monesiglio una via: a Pruneto, da don Spagarino. Indulgenza plenaria."


Ma anche negli anni normali la cerimonia aveva pur sempre un significato preciso di contestazione sociale, di gioioso rovesciamento delle regole prestabilite, la notte insonne passata a mangiare e a cantare, le satire agli agenti del fisco a agli agrimensori, ovvero a chi utilizzava i suoi studi per sfruttare la gente, il contrasto stridente tra le donne che al mattino si recavano in chiesa per ricevere le Ceneri e gli ultimi manipoli di giovani che finivano allora di festeggiare:

"Gli movevano incontro la sera di sabato grasso fino alla contrada dei Colombi, all'osteria del Bulo, e cantavano:
    Vieni vieni o Carnevale
    E' già un anno che t'aspetto

E il carnevale veniva: sbucava dall'antro fumoso del Bulo in figura di quel bambolone levato alto sul parapiglia, benedetto e applaudito: e scendeva in trionfo al borgo: e il suo arrivo colà segnava lo scatenarsi della pazzia generale. Banchetti, balli, canti, tripudi. Mascherate a gruppi, mascherate solitarie. Il cavadenti, il marchese, il Torototela. Gli agrimensori, gli agenti del fisco, i récruterus. Satire, caricature, beffe: gara a chi inventasse le più nuove, gara a chi meglio le traducesse in atto. Imbattuti sempre - si capisce - nella gara, i fratelli Monti, gli inesauribili fratelli di Papà. E il moto sulla fine sempre più veloce. Il martedì grasso dopo il mezzodì tutto il paese in succhio a godersi l'ultime ore beate. A mezzanotte le esequie di Carnevale: dond'era venuto di là se n'andava il bambolone, disteso sul cataletto, portato in sepoltura fra le litanie maccheroniche: e il prevosto chiuso in canonica, nero come un cappello. E all'avemaria poi del mattino, quando le donne s'avviavano in chiesa per le Ceneri, da quell'osteria dove l'ultimo manipolo s'era barricato, duro a morire, veniva ancora la canzone: la canzone petulante e provocante dei paganessuno:
    Ora che abbiamo mangià e bevù
    cara l'ostessa, grattatevi il cù
    Grattatevi il cù con tutte e due le man
    che paseremo a pagar doman.


Di Luigi Gallareto

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