Ci rimasi piuttosto male e stavo ancora rimasticando quell’amarezza quando Emilio mi depositò sul passo della Bossola dov’era la fermata della corriera per Alba. Ero arrivato con un quarto d’ora di anticipo e l’aspettai solo, con i bagagli ai miei piedi. La strada aveva l’aria di essere deserta per miglia e miglia. Soffiava un vento leggerissimo che spolverava i lastroni di tufo e cavava dai pinastri un rumorino che non mi impediva di udire i belati di greggi invisibili su lontani versanti e il macinio delle ruote di Emilio che ridiscendeva al paese. Il cielo da ogni parte, ma soprattutto sopra il crinale di Mombarcaro, preparava una pioggia lunga ma pacifica. Mi fissai a contemplare San Benedetto nella conca sottostante. Scuriva, dalle case già si levavano le prime fumate azzurrine, fra poco la campana avrebbe dato l’ultimo rintocco di quel giorno e il messo comunale avrebbe acceso l’unica lampada pubblica della piazzetta, si sarebbero messi a stormire lamentosamente, come per una penitenza collettiva a durare fino all’alba, i mille e mille pioppi lungo Belbo. Allora capii che ancora per quella sera non potevo fare assolutamente a meno di tutte quelle cose e che il tornare a casa mi era tal quale che andare all’esilio. Quando sentii la corriera di Alba infilare stridendo e strombettando le ultime curve prima del passo. Ci salii come un prigioniero sul cellulare e dal finestrino guardai un’ultima volta San Benedetto mai più immaginando che non ci sarei più tornato prima di tre anni.
Beppe Fenoglio
da "Superino"