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Tutte le citazioni sono tratte dal diario di Davide Lajolo "24 anni - Storia spregiudicata di un uomo fortunato"






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Sibilla
ALERAMO

22 novembre 1955
È venuta a Milano Sibilla Aleramo per una conferenza alla Casa della Cultura. Doveva raccontare di sé, fare la sua autobiografia come donna e come scrittrice. Nella luce ancora celeste dei suoi occhi e con la intelligenza che non le ha mai cancellato l’ingenuità e l’utopia, ha saputo raccontare tutto. (…) Ne è scaturita una confessione emozionata ed emozionante. Sibilla ha avuto il sincero accento di una donna che ha sofferto fin dalla giovinezza per liberarsi dai tabù della sottomissione.



Jorge
AMADO

12 settembre 1954
Avevo avuto l’incarico dalla segreteria del partito di andare a mediare certi contrasti che erano sorti tra i dirigenti cecoslovacchi e alcuni partigiani italiani (…) Mi fermai parecchi giorni per assolvere quell’incarico ed ebbi contemporaneamente l’occasione di passare molte sere con due personaggi di eccezione: Neruda e Jorge Amado che, in quei giorni, si trovavano a Praga. Quante confidenze nelle passeggiate notturne lungo la Moldava. Né per Neruda né per Amado quello era un esilio dorato.



Giorgio
BOCCA

3 dicembre 1966
Ho ricevuto la Storia dell’Italia partigiana di Giorgio Bocca. È un libro dove Bocca rivela qualità che vanno oltre la sua ben nota capacità giornalistica. Ne ho parlato insieme a Parri perché dovevamo presentare il libro a Roma. Parri non accetta la mia osservazione, cioè che Bocca, avendo fatto il partigiano nelle formazioni GL, privilegia queste formazioni e il Partito d’Azione mettendo talvolta in sottordine l’apporto garibaldino. Bocca crede a quello che fa anche quando si contraddice. È come me, una “crapa” piemontese.



Vitaliano
BRANCATI

26 settembre 1954
L’avevo incontrato parecchie volte con Pannunzio a Roma e a Milano. Sempre vestito di scuro, col suo cappello nero, inappuntabile. Anche il viso era scuro, da siculo tormentato. I suoi libri così pieni di verve e di sana letteratura lasciavano sempre una strana malinconia. Era un autore fortunato e stimato, i registi si contendevano i suoi romanzi per tradurli in film.



Bertold
BRECHT

13 febbraio 1956
Paolo Grassi e Strehler mi hanno invitato al Piccolo Teatro ad un ricevimento in onore di Bertold Brecht venuto a Milano per assistere alla prima de L’opera da tre soldi per la regia dello stesso Strehler. Ci sono andato volentieri, curioso ed emozionato. Quando si sono lette tante cose di un poeta, incontrarlo di persona è sempre un avvenimento. (…) Ci stringiamo calorosamente la mano. Brecht mi fa notare che ha in tasca l’Unità. Mi indica il corsivo con la mia firma. In francese mi dice: “Così ti ho già conosciuto.” Sorride, è nella sua solita tenuta, tale e quale un operaio. Non lo fa per posa. È sempre vestito così. (…) Tento di aprire la conversazione sulle sue liriche. Mi dice soltanto che le scrive per parlare con se stesso.



Dino
BUZZATI

18 ottobre 1965
Oggi sono andato con Buzzati e Carrieri in funzione di esperti presso Savinelli che fabbrica pipe. Buzzati si limita a fumare taciturno. Carrieri invece si diverte a cambiare pipa paragonando ognuna ad uno scrittore con quel sarcasmo che gli è inseparabile. Buzzati gli chiede con quale pipa vedrebbe il suo connubio. E Carrieri: “Qui non c’è la pipa tartara ma, in compenso, tu riesci a sentirti nel deserto anche a Milano."



Italo
CALVINO

14 settembre 1945
Si è presentato in redazione un giovane ligure, i grandi occhi in ricerca, slanciato, la testa alta: Italo Calvino. Mi dice che ha fatto il partigiano, che gli piacerebbe scrivere, magari fare il giornalista. È timidissimo e lascia scivolare sul tavolo senza parlare due suoi racconti. Apro i fogli, comincio a leggere il primo. Il racconto mi pare buono. Lo guardo, Calvino è arrossito: “È un racconto scritto bene e con mano sicura, sei bravo. Lo pubblichiamo domani. Farò leggere questo racconto e anche l’altro a Pavese.” Calvino invece di rispondere ingrandisce di più gli occhi sorridendo e finalmente riesce a mormorare un grazie.



Paul
ELUARD

19 aprile 1946
Sono stato a Milano invitato da Vittorini per conoscere il poeta francese Paul Eluard. Eluard ha davvero l’aria del poeta. Il volto, gli occhi, le mani. Mentre lo hai davanti sorridente provi l’impressione che anche quando sta seduto cammini in punta di piedi. Sembra che possa stare in mezzo alle cose senza toccarle come fosse vibrato in aria. Un uomo tenerissimo.



Oriana
FALLACI

8 marzo 1967
Sono stato a cena con Oriana Fallaci. È la vivacità personificata. Una intelligenza non comune, una capacità di lavoro tale da battere parecchi uomini. Giornalista, cronista attenta ad ogni particolare, sicura nell’avere una visione generale delle cose. Ha girato il mondo con quella sua figurina fragile. Se ti fermi un istante nelle sue pupille capisci quanta forza e quanta energia può sprigionare. Con lei non si parla, si discute, si polemizza. Ha sempre l’improntitudine di dimostrarti che quanto le dici lo sa già, che vuole sapere invece quello che nessuno sa, i risvolti segreti, i perché non detti, i fatti rivelatori, non i contorni in cui sono stati avvolti. Quando ti ha indisposto con le sue domande inquisitorie ti sorride e ti conquista per ricominciare a scandagliarti, a farti dire anche quello che ti sei ripromesso di tacere.



Beppe
FENOGLIO

29 ottobre 1952
Ho letto I ventitrè giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio. Non mi è piaciuto. Mentre perdura la propaganda antiresistenziale e i partigiani vengono buttati in carcere come delinquenti, questo racconto di Beppe che ha fatto la Resistenza accanto a me, sulle Langhe, mi è parso aiutare chi s’affanna a denigrarci. (…) Le nostre forze partigiane non erano ancora in grado di difendere la città che avremmo certo riperduto portando scoramento nei combattenti e nella popolazione, come sosteneva Fenoglio in quelle pagine. Ma perché descrivere l’occupazione come una carnevalata? I partigiani come soldati di ventura e l’abbandono della città come una fuga di fronte ai fascisti? Ho scritto un articolo sul libro con tono aspro.

(N.d.r. Lajolo cambierà opinione sugli scritti dell’amico Fenoglio e a lui dedicherà il libro “Fenoglio. Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe” e un servizio radiofonico scritto con Guido Sacerdote.).



Carlo Emilio
GADDA

8 luglio 1957
Era stato un incontro strano. Alla sede romana della Rai. Gadda mi guardava con sospetto. Mi vedeva come uno che poteva farlo trasferire dal posto che occupava. Era scorbutico, gli occhi bassi, a disagio. Anche se Bo dopo mi ha spiegato il carattere dell’uomo, lì per lì sono rimasto male. Gadda era soltanto un uomo solo. Devo però dire la verità. Se Gadda mi affascina per certi aspetti, per altre sue cose rimango perplesso. Mi pare che il gioco letterario, sempre abilissimo, talvolta straripi nel voluto, nell’ermetismo, oltre agli scatti di autentica follia.



Alfonso
GATTO

23 settembre 1948
A Saint-Vincent abbiamo premiato per la poesia Alfonso Gatto e Sergio Solmi. Alfonso Gatto è stato con me redattore a Torino, intelligente e scentrato. I poeti non possono essere condannati al tavolo di lavoro redazionale a passare notizie. Il guaio è che quando lo mandavo fuori a fare l’inviato scompariva e per giorni era introvabile. Però sapeva farsi perdonare tutto con splendidi articoli e mi faceva sempre cedere quando mi portava una poesia inedita da pubblicare.



Natalia
GINZBURG

31 marzo 1946
Andiamo insieme a pranzo alla Trattoria del Popolo. Troviamo Calvino, Pavese, Natalia Ginzburg. Natalia pare sempre spaurita. I suoi grandi occhi scuri passano sulle cose e sulla gente come quando il sole è furtivo tra le nuvole. L’ho conosciuta dopo aver letto il suo racconto La strada che va in città, uscito sotto il fascismo e firmato Alessandra Tornimparte a causa delle leggi razziali.



Giovanni
GUARESCHI

3 novembre 1955
Giovannino Guareschi si è dato da tempo al cinema. È un personaggio di successo. Il settimanale satirico Candido gli va bene, i suoi libri raggiungono alte tirature, i film sono in testa nelle classifiche degli incassi. (…) D’altra parte Guareschi è emiliano e non può non avere nel sangue l’eredità sfottente e allegra che è della sua gente. (…) Probabilmente nei confronti di Guareschi non sono un giudice sereno. Sono stato messo alla berlina personalmente da Guareschi per troppo tempo su Candido attraverso la consueta vignetta “contrordine compagni”, dove ero il personaggio trinariciuto di centro. (…) Dopo la divertente sfida al Caffè Cavour quando lo avevo preso di petto e scherzosamente minacciato di farlo diventare con tre narici, eravamo diventati amici. Quando ha dovuto sopportare un anno di carcere su querela di De Gasperi ho ritenuto giusto difendere attraverso di lui la libertà di stampa.



Ernest
HEMINGWAY

3 luglio 1961
I ricordi si fissano sull’incontro a Venezia nei giorni della mostra sul cinema dell’anno precedente. Era stato Enrico Emanuelli ad accompagnarmi al Danieli per presentarmi Hemingway. Appena seppe che ero stato amico di Pavese, Hemingway quasi m’investì. Emanuelli cercava di frenarlo, ma Ernest era irrefrenabile. La stima che aveva per Pavese lo spingeva a farmi una domanda dopo l’altra. Soprattutto una tornava insistente: “Perché si è suicidato Pavese? Perché voi suoi amici non siete riusciti ad offrirgli la compagnia per aiutarlo a vivere? (...)
Hemingway continuava a bere whisky. Se ne era portato appresso due bottiglie. Beveva e ragionava sempre più lucidamente. Nel riflesso notturno del mare pareva più alto ed affascinante con quel viso concitato e la sua bellissima barba. (…)
Un'indimenticabile notte con un mostro sacro, un vulcano di idee. (...)
Ancora sulla porta dell’albergo Hemingway mi disse con la sua voce tonante: “Pavese non si doveva suicidare. Portati dentro la tua parte di rimorso.”



Nazim
HIKMET

10 agosto 1951
Poi arriva il poeta turco Nazim Hikmet che ha cantato il filo d’erba che spuntava in alto sotto la tenue luce del suo carcere-spelonca, sofferto per dieci anni nel suo paese. Nazim Hikmet è un uomo straordinario. Non porta segni delle sofferenze che ha patito, delle umiliazioni, del terrore di cui è stato circondato. È forte, i neri capelli alti sul capo, gli occhi scuri e lucenti. Ci abbraccia come ci si abbraccia tra fratelli. È un momento di emozione. Anche a Neruda e ad Amado tremano le labbra. Vale vivere per questi momenti che non sono fatti di parole. Sono indimenticabili.



Carlo
LEVI

10 luglio 1950
Carlo Levi mi ha portato L’orologio. Ha scritto la dedica, poi ha disegnato la mia testa sullo stesso foglio. Levi non è modesto eppure ha dentro tanto pudore e splende di una lealtà che non è facile trovare in altri intellettuali. Se ne va senza salutare, come volesse lasciarti la sua presenza.

Carlo Levi ha preso l’abitudine di passare tutte le mattine a Montecitorio prima di recarsi al Senato. Arriva ballonzolante, il volto sempre sorridente. Si va a prendere il caffè assieme al bar della Camera. Si discute sui fatti del giorno, poi mi sfila dal taschino un toscano e se ne va. Mi dice che ieri ha accettato l’incarico che gli ha proposto il partito di occuparsi come parlamentare degli emigrati. Andrà presto in Svizzera, in Germania, in Belgio. È sempre entusiasta ogni volta che gli si chiede di frequentare gente.



Massimo
MILA

22 aprile 1947
Massimo Mila con la sua consueta coraggiosa intelligenza ha aperto una polemica con Togliatti sulla musica di Ciaikovsky. Togliatti s’era inoltrato troppo in un terreno non suo. Mila senza alcuna riverenza l’ha controbattuto su Rinascita. Mila non è un comunista e quando l’ho pregato di fare il critico musicale su L’Unità è stato chiaramente stabilito che poteva disporre di ogni libertà di giudizio.



Eugenio
MONTALE

20 giugno 1966
Montale mi ha ricevuto in casa sua per farmi vedere i suoi “quadretti”. Che fosse pittore l’avevo saputo a Saint-Vincent quando eravamo assieme nella giuria del premio. Finito il pranzo aveva accennato un paesaggio sulla carta del menù. Una pianta, un prato appena accennato, l’ombra di un orizzonte. Delicato, senza un segno in più come le sue poesie che non sopportano una parola oltre quelle indispensabili.



Pablo
NERUDA

12 settembre 1954
Avevo avuto l’incarico dalla segreteria del partito di andare a mediare certi contrasti che erano sorti tra i dirigenti cecoslovacchi e alcuni partigiani italiani (…) Mi fermai parecchi giorni per assolvere quell’incarico ed ebbi contemporaneamente l’occasione di passare molte sere con due personaggi di eccezione: Neruda e Jorge Amado che, in quei giorni, si trovavano a Praga. Quante confidenze nelle passeggiate notturne lungo la Moldava. Né per Neruda né per Amado quello era un esilio dorato.



Pier Paolo
PASOLINI

1 luglio 1959
Ho cenato con Pier Paolo Pasolini, per discutere sul romanzo: Una vita violenta. (…) Mi ha colpito come Pasolini fosse riuscito a raccontare le borgate romane dopo essere stato tanto intriso del Friuli. Dal dialetto friulano al gergo romanesco. “Come hai potuto immedesimarti in due realtà tanto diverse? Quali sono le tue vere radici?” La mia domanda prima lo diverte poi lo intristisce. Mi spiega con dialettica convincente tra paradosso e ragione che nessuno di noi ha radici. Quello delle radici è un luogo comune. “Nessuno di noi ha radici: chissà da dove veniamo. Le radici le germiniamo di giorno in giorno. Chi vive e non vegeta le getta rigogliose, chi non ama la vita le dissecca sul nascere. Io non mi sento radicato in nessun luogo, né a Bologna dove sono nato, né in Friuli dove ho conosciuto giorni chiari e altri scuri, né a Roma dove ora vivo. Mi affianco alle persone sapendo già che non sono legami eterni: cerco di serbare fedeltà all’intelligenza, questa conta per capire, per giudicare, per non essere sconfitto dalle illusioni".

3 giugno 1964
Pasolini arriva trafelato a Montecitorio con una cartella sotto il braccio. Mi mostra alcuni fogli, sono la stesura del nuovo film che sta preparando, Il Vangelo secondo Matteo. Ne è invasato, mi chiede se voglio recitare la parte di uno degli apostoli, gli rispondo negativamente, come avevo già fatto con Rosi. (…) Mi saluta e parte di corsa mettendomi tra le mani il suo ultimo libro Poesia in forma di rosa. La capacità di lavoro di Pasolini è spaventosa. (…)

21 giugno 1968
Pasolini è sempre contro corrente. Non lo fa per posa, ma perché illuminato dal suo modo di soffrire i fatti, dalla sua lucida, profetica intelligenza. Deve sempre stare alla ribalta, è più forte di lui.”.



Cesare
PAVESE

20 maggio 1945
Teo Tesio arriva di corsa per dirmi che Cesare Pavese vorrebbe vedermi. Avevo letto le sue poesie e Paesi Tuoi. (…) Mi alzo per andargli incontro. Pavese è già sulla porta. Ci guardiamo, ci tocchiamo la mano. Rimaniamo in silenzio masticando entrambi i bocchini delle nostre pipe. Pavese mi dice che è venuto per vedermi in faccia. Mi conosceva negli echi degli spari della guerriglia partigiana combattuta sulle sue colline, quando lui “consumava la sua viltà” a Serralunga di Casale. (…) Si comincia a parlare e durerà fino alle quattro del mattino. In un breve intervallo, mentre scrivo il corsivo quotidiano per la prima pagina, Cesare guarda attonito la mia penna scorrere rapida: "Fammi vedere. Come fai a trovare tutte di fila tante parole?”. Legge. Mi guarda. Nasce così la nostra amicizia.

20 giugno 1945
Pavese stasera è entrato nel mio ufficio con il volto felice. Chiuso nel suo vestito perennemente grigio, ha una cravatta con accenni rossi. (…) Alle cinque, spunta l’alba e siamo ancora in giro per le strade. Quando Pavese è contento la sua compagnia non fa misurare il tempo.

17 giugno 1946
Pavese mi ha portato sere fa il primo libro della Recherche. Mi ha detto: “Tu che il francese lo leggi. Vedi, Proust è uno scrittore che s’è tappato in casa dopo aver vissuto anni intensi e dissipati, per scrivere del suo tempo perduto”. Ne ho letto un buon numero di pagine. All’inizio mi indispettiva. Mi ripromettevo di restituirlo a Cesare dicendogli “Ecco perché ogni tanto affondi. Con maestri così non c’è scampo.” Ma poi, insistendo nella lettura, ho capito che Proust non ha mai vissuto tanto come nella sua solitudine. Ho capito anche meglio i tormenti di Pavese.

14 marzo 1950
Pavese mi manda un articolo sul poeta americano Lee Masters, l’autore del celebre Spoon River. Come sempre Pavese ha delle illuminazioni che ti scoprono l’animo del poeta. A ognuno di questi articoli mi domando sempre se Pavese non sia più forte come critico che come narratore.

20 agosto 1950
Stamattina sono andato in piazza a Vinchio ad aspettare la corriera. Pavese mi aveva promesso che sarebbe venuto qui a vedere la festa patronale, il ballo a palchetto, la gara alle bocce e la rottura delle pignatte. Arriva la corriera. Scendono tutti, ma Cesare non c’è. La maestra ha Stampa Sera aperta tra le mani. Vedo la fotografia di Pavese in prima pagina. Mi faccio prestare il giornale: “Pavese si è suicidato all’albergo Roma di Torino davanti alla stazione Porta Nuova. Ha ingerito molte pastiglie di barbiturici”. Sudo freddo come stessi per svenire. La notizia mi fulmina il cervello. Perdo la parola e i pensieri. Rimango fermo in mezzo alla piazza, muto. Non riesco neppure a leggere oltre. Le righe si intorbidano. La corriera riparte in un nugolo di polvere. Rimango piantato lì, solo con il giornale tra le mani. Il cane mi è vicino, scodinzola. Torno a casa curvo come portassi sulle spalle il corpo esanime dell’amico. (…) Decido che non andrò ai suoi funerali. L’ho seppellito dentro di me. Così usa qui quando muore una persona troppo cara.

10 marzo 1959
Circa un mese fa ho rilasciato una intervista alla radio a commento di quella concessa da Pavese nel 1950 alla stessa Rai parlando della mia amicizia con lui e dei quotidiani incontri serali durati oltre un anno. Antonicelli ne è rimasto entusiasta e mi ha suggerito di scrivere qualcosa su Pavese. (…) Ma soltanto più tardi, il 27 febbraio per la precisione, ho deciso di iniziare a scrivere qualcosa che possa corrispondere alla vita di Pavese in stretto rapporto alle sue opere. Riaffioravano i ricordi dei nostri colloqui. Lunghe conversazioni durate oltre un anno a Torino e poi a Milano. La penna correva come sotto dettatura. L’unico sforzo che facevo era di non lasciarmi sopraffare dalla affettuosità dei rapporti. Dovevo difendere l’amicizia dall’agiografia, riuscire a rispettare l’obiettività.

30 novembre 1961
Nei mesi scorsi in collaborazione con due ottimi registi, Ruggerini e Nocita, ho preparato un documentario per la Rai-tv su Cesare Pavese. (…) Abbiamo girato una parte del documentario a S. Stefano con attorno le colline de La luna e i falò, la casa dove Pavese è nato, l’Albergo della Posta, la falegnameria di Nuto con le bigonce e, sotto, il rumore del Belbo che scorre accanto alla strada. I contadini non mostravano alcuna curiosità. Pavese era uno troppo diverso da loro, seminava senza raccogliere frutti, né uva, né grano, né soldi. Seminava parole che finivano in sogni, nell’aria. Tutta roba per loro impalpabile.



Vasco
PRATOLINI

18 giugno 1952
Vado a pranzo con Vasco Pratolini e Carlo Bernari. Due scrittori diversi d’impasto e formazione ma entrambi coscienti di quanto costa il pane quotidiano non solo per sé ma anche per gli altri. Pratolini è più sentimentale e sinuoso. La sua natura di toscano lo porta a scatti ed abbandoni. I suoi libri ti passano sulla pelle, sono tattili e poi ti svegliano dentro la piena dei sentimenti. Più che di certezze parlano di dubbi. (…) Pratolini mi guarda e nei suoi occhi chiari vedo svolgersi il ricordo del nostro primo incontro nei mesi caldi del dopo Liberazione. Pratolini era salito nel mio ufficio a L’Unità dalla redazione del Corriere Lombardo dove lavorava, affranto come l’avessero colpito da una frustata. Era stato reso noto (ancora nel giro di poche persone) un elenco di ex aderenti all’OVRA. Vi figurava anche il suo nome. Tutte le spiegazioni che forniva, parlando lentamente, faticando una parola dopo l’altra, erano in più, perché non solo conoscevo già tutta la vicenda, ma anche perché se c’era un uomo limpido in tempi oscuri, questo era Pratolini. (…) Quella sera la conversazione con Pratolini si concluse in un abbraccio a guance umide. Credo che la nostra amicizia sia nata proprio in quell’occasione per durare senza sospetti.



Salvatore
QUASIMODO

14 giugno 1950
Quasimodo viene spesso a trovarmi in redazione. Arriva camminando lento come se dovesse tenere sempre in bilico la corona di gloria sulla testa. Cammina col ritmo dei suoi versi. Mi guarda con occhio ironico. Parliamo di tutto. Di politica, di Sicilia, di donne, di poesia. Le sue risposte hanno sempre il sussiego delle sentenze irrevocabili. Poi scoppia in risate fuori tono e capisci che non sa soltanto usare il bisturi con gli altri ma sa fare anche l’autocritica. Quando lo presento ai redattori grido ogni volta: salutate l’altissimo poeta. Lui sorride e s’inchina. Prende la cosa metà come dovuta e metà per scherzo. È reduce stanotte da “Bagutta”. Ha vinto il Premio S. Babila.



Gianni
RODARI

4 marzo 1951
Ho con me in redazione Gianni Rodari. Da tempo pubblichiamo le sue filastrocche che hanno tifosi in milioni di bambini. Per me Rodari è un poeta. Ogni tanto entra e mi legge una nuova poesia. Oggi la filastrocca è intitolata “L’omino della gru”. Dalla finestra mi ha mostrato la gru del palazzo di fronte ed in cima l’uomo che l’aveva ispirato.



Umberto
SABA

25 agosto 1957
Carlo Levi ha voluto che ci incontrassimo a Trieste per farmi conoscere Umberto Saba. (…) Un incontro cordiale. (…) Levi tenta come al solito di tener banco, ma d’improvviso Saba esplode imprevisto e maligno. Mi ricordo che molti, pur riconoscendolo un autentico poeta, lo giudicano come persona presuntuosa e intrattabile. Invece di ascoltarlo quando s’accalora contro qualcuno io mi distraggo ricordando i versi per la capra dal naso camuso.



Mario
SOLDATI

28 marzo 1966
Ho incontrato Soldati che è da poco rientrato da Mosca. Nel torrente delle sue parole Mosca rivive com’è: così la gente di Russia. Ha trovato laggiù calore e simpatia nel mondo del cinema tra registi e critici. (…) Per un uomo come Soldati che sta col cuore in America, il suo entusiasmo per la gente dell’URSS è significativo.



Mario
TOBINO

1 luglio 1962
Tobino è lui stesso un romanzo. Da anni fa il medico in un ospedale psichiatrico per sua scelta. Vive solo, i matti sono anche la sua famiglia. È la generosità e la bontà personificata. Parlare con lui è come trasferirsi su un altro pianeta. In mezzo a questa società Tobino vive come nella “Città del sole” di Campanella. (…) La gloria non l’ha toccato, lui è uno scrittore che scrive per se stesso, un’isola di serenità.


Giuseppe
UNGARETTI

13 giugno 1948
Fra tutti i giudici (del premio letterario), a parte l’amicizia con Vittorini, Ungaretti è senza dubbi d’una simpatia affascinante. Fa il vecchio, ma è un ragazzo dagli occhi scintillanti. Sono stato con lui giorni interi imparando, bevendo le sue parole. Ha una umanità che possiedono solo i poeti. Cito i suoi versi a memoria e lui s’incanta di contentezza.



Marcello
VENTURI

24 febbraio 1952
È uscito il primo libro di Marcello Venturi: Dalla Sirte a casa mia. Marcello è stato assunto in redazione da Fidia Gambetti che lo conosceva già come scrittore. È uno di quelli sui quali faccio più affidamento, oltre ad essermi molto affezionato. Ha un viso da ragazzo con gli occhi celesti; viene da Fornovo sul Taro, ma è nato in Versilia, a Querceta, figlio di un ferroviere. Ha radici sane e il culto di suo padre ferroviere.



Elio
VITTORINI

26 maggio 1945
È venuto a Torino Vittorini: finalmente ci conosciamo. Ha il viso concitato di chi è sempre all’erta, in procinto di partire. È un bell’uomo, forte, vivo, nervoso, silenzioso. (…) Vittorini difende lo spazio per la cultura, è uno scrittore con i denti. Vuole trovare a tutti i costi il giusto collegamento tra lotta politica e lotta culturale.

20 settembre 1960
Ieri sono stato a cena con Vittorini. Ha voluto stare solo con me per tante ore, fino alle tre del mattino. Mi ha riversato un fiume di confidenze. Le parole gli uscivano come da una polla d’acqua sorgiva. Vittorini è incantevole. Dall’irruenza, alla furia, alla dolcezza, alla tenerezza. È un fuoco che non fa cenere. Tutto si brucia e rimane incontaminata la fiamma. (…) Naturalmente abbiamo parlato molto dei suoi libri. Mi ha spiegato come se li porta dentro, nutrendoli come una madre nutre un bambino in grembo.



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